Il mio ricordo personale di Gabriele Tarquini è quello di tanti altri kartisti che hanno iniziato a girare il volante nei primi anni ’80 e che lo prendevano come esempio da seguire non solo tra i cordoli, ma anche nella vita.
Era, ed è, una persona speciale. Anche ricoprendo il ruolo di primo della classe, scambiava sempre una battuta o un cenno di saluto con tutti. In qualsiasi momento, dopo una vittoria strepitosa o una cocente delusione, è sempre stato disponibile e, per questo, si è fatto sempre voler bene da tutti: amici, tifosi, meccanici e team manager.
Nella sua carriera, in cui non ha colto tutte le soddisfazioni che avrebbe meritato per il suo talento cristallino e per la sua velocità, ha spaziato dalla Formula 3000 alla Formula 1, per trovare la realizzazione come pilota nelle gare turismo, dove ha praticamente vinto tutto quello che c’era da vincere.
Parlare con lui è come incontrare un amico dopo 25 anni.
Tanti pilotucoli spocchiosi farebbero bene a prendere una lezione di classe dal Cinghios, così come lo chiama chi lo conosce da tanti anni…
Due campionati del mondo vinti a 25 anni di distanza. Il primo in kart, classe 125 Formula C; il secondo con le vetture turismo, il WTCC del 2009: una storia da guinness dei primati che merita di essere raccontata, visto che nessuno sportivo ha mai bissato una vittoria mondiale dopo 25 anni…
Sono state due emozioni completamente diverse tra loro. Il mondiale vinto nel 1984 è stato il modo per rompere il ghiaccio e lanciarmi nel mondo dell’automobilismo sportivo entrando dalla porta principale. Per la mia carriera è stato senza ombra di dubbio il più importante dei due. Quello nel WTCC è stato più bello sotto il profilo emotivo. Mi ha dato una soddisfazione enorme dimostrare a tutti di essere ancora competitivo anche nei confronti dei piloti più giovani.
Gabriele, sei un po’ il dottor Jekill e Mr. Hyde: una persona affabile e disponibile nella vita di tutti i giorni e il più aggressivo dei piloti in pista. Chi sei realmente: Jekill o Hyde?
Sono entrambi. Mi sento di essere una persona estremamente disponibile nella vita di tutti i giorni, un uomo razionale, legato alla propria famiglia. In gara, invece, divento un’altra persona. Perdo totalmente il raziocinio e cerco costantemente il limite. Questa mia irruenza è stata, allo stesso tempo, il mio punto di forza e il mio più grande limite.
In molti ti considerano uno dei talenti ingiustamente inespressi della Formula 1 a cavallo degli anni ’80 e ’90. Cosa è mancato a Tarquini per poter fare il salto di qualità e passare a una squadra di punta in cui poter ambire a posizioni di rilievo?
Essere vincenti in Formula 1 è frutto di una combinazione di fattori: macchina giusta, team giusto, tecnici capaci e, perché no, un pizzico di fortuna. Per avere la macchina giusta non basta andare forte e fare la gara della vita, ma bisogna anche sapersi gestire, poter contare su un valido management e, perché no, avere la faccia tosta per potersi proporre. A quei tempi eravamo 12 italiani in Formula 1 a dividerci tifosi, sponsor e le attenzioni dei media e la mancanza di faccia tosta è stato uno dei miei maggiori punti deboli.
Il primo anno con la AGS, un piccolo team francese molto ben organizzato e con una ottima macchina, è stato il momento in cui ho sentito dentro di me di poter essere realmente un pilota competitivo in Formula 1. Alla prima gara ad Imola colsi un insperato 8° posto finale, poi mi ritrovai con il 5° tempo il giovedì a Montecarlo e raggiunsi un incredibile 11° posto in griglia, che sarebbe potuto addirittura maturare in un 4° posto in gara. Fui poi sesto in Messico. A fine campionato avrei potuto ambire a un volante più competitivo per la stagione successiva. Ma la mia indole non era e non è quella di chi si fa avanti e si propone: ho aspettato una chiamata che non è mai arrivata e, per riconoscenza, sono rimasto un secondo anno alla AGS senza raccogliere quello che forse avrei meritato. Seppi successivamente che team come Lotus e Scuderia Italia erano interessate a me…
Rimpiangi qualcosa nella tua carriera di pilota?
Non ho rimpianti: rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Mi sono divertito in una Formula 1 di fenomeni, avendo incrociato le braccia con gente come Senna, Prost, Piquet, Mansell e compagnia… Da loro ho imparato tanto e mi reputo un uomo fortunato a poter fare questo lavoro!
Forse avrei dovuto imparare a propormi, a gestirmi meglio.
Avrei avuto bisogno di un buon manager.
Quella di aspettare più che cercare il posto giusto è stata la mia più grande lacuna. Non ho mai bussato a nessuna porta.
Dopo gli exploit con la AGS ho sempre vivacchiato in F1: i team mi chiamavano perché ero pratico delle prequalifiche ed ero velocissimo in prova, l’ideale per mettere almeno una macchina in griglia.
Però non ebbi più l’occasione di guidare la macchina giusta.
Però, ai tempi della Fondmetal, Rumi ti mise a disposizione una buona macchina.
Si, è vero: la macchina di Sergio Rinland nel ’92 era ottima, ma arrivò solo a metà stagione, quando Rumi decise di tirare i remi in barca dopo aver cercato inutilmente di creare un team unendo le forze degli imprenditori lombardi. Nessuno però lo seguì in questo progetto ambizioso e lui, dopo aver speso una grande quantità di danaro, giustamente decise di venirne fuori almeno in forma diretta.
Rumi stravedeva per Gabriele Tarquini…
Si, è vero. Nel mondo delle corse ho avuto due papà: il primo è stato Calogero Vanaria, il secondo Gabriele Rumi. Vivevo con la famiglia di Calogero, ero uno di loro.
Rumi avrebbe voluto darmi la macchina vincente, ma era solo e senza appoggi. Fece i salti mortali anche per mettermi come terzo pilota sulla Tyrrell al GP d’Europa…
Dopo la Formula 1 si sono aperte definitivamente le porte delle gare turismo, di cui ben presto sei diventato uno dei più grandi interpreti. Com’è stato il passaggio dalle ruote scoperte a quelle coperte?
Devo dire che il coronamento della mia carriera è stato proprio con le ruote coperte. Forse perché la maggiore “fisicità” delle turismo mi ha permesso di poter mettere a frutto nel migliore dei modi il mio stile di guida aggressivo e fisico. Le turismo sono come il kart: c’è contatto, ti fai sentire dal pilota con cui sei in bagarre. In F1 ogni minimo contatto può rappresentare la fine della corsa, essendo le monoposto estremamente delicate. E poi anche l’ambiente delle gare per derivate di serie è più vicino a quello del kart, è meno stressante.
E così, nel turismo hai vinto tutto…
Beh, si… ho vinto parecchio, ma non tutto…
Come non tutto? Hai vinto il campionato Europeo, il BTCC, il Mondiale… cos’altro avresti potuto vincere?
Se non fossi stato così irruente avrei potuto cogliere molti più successi. Alcuni titoli li ho persi proprio per la mia incapacità di fare calcoli. I ragazzi del team Seat, lo scorso anno, mi misero una calcolatrice in macchina, attaccata col nastro adesivo sul cruscotto, per ricordarmi di tenere a mente la classifica del campionato più che quella della gara. Ma io non ci sono mai riuscito, è più forte di me! Le mie vittorie sono arrivate grazie alla mia irruenza, e credo di aver fatto bene a non rinunciare mai a questa mia caratteristica.
Cosa vuol dire correre a 48 anni a livello mondiale?
Il cuore non ha le rughe, hahahahahahaah! Mi sento veloce esattamente come prima, ma sono anche più esperto. Ovviamente devo tenermi in allenamento, fare attenzione all’alimentazione, ma non faccio sacrifici impossibili. In macchina mi sento ancora fortissimo, tanto quanto i giovani.
Sei ancora Cinghio! Ma dicci un po’: se ne sono sentite tante su questo tuo soprannome… tante leggende metropolitane aleggiano intorno ad esso. Che cosa significa veramente?
Il vero soprannome era Cinghios, in realtà; col tempo poi divenne Cinghio.
Me lo mise Beppe Gabbiani ai tempi della Formula 3000 ed era la sintesi di cinghiale e indios: cinghiale perché ero aggressivo sino all’eccesso, indios perché ero un terrone… hahahahahahahahahaha! E così venne fuori Cinghios: il cinghiale terrone. Alla fine, però, questo nome mi è piaciuto perché sono sempre stato orgoglioso del mio modo di affrontare le corse e delle mie origini.
Ecco, parliamo delle origini. Hai subito corso in 125, snobbando la 100 negli anni in cui la classe col cambio era quella degli aspiranti piloti. Come mai questa scelta?
Quando avevo circa 6 anni mio padre prese in gestione un distributore di benzina e, nel pacchetto, c’era anche una pista di kart. Iniziai subito a girare in kart tutti i giorni, provandoli tutti: 100 e 125. Trovai infinitamente più divertente e veloce il 125, di conseguenza mi dedicai subito a quello.
Non mi interessava che, ai tempi, la 125 era la classe meno importante: io mi divertivo con quello.
Raccontaci del sodalizio che portò alla vittoria del Mondiale 125 FC del 1984.
Kalì (Calogero Vanaria, NDR) mi mise a disposizione, come motorista, Gianfranco Baroni. Tecnico di grande capacità e intuizione, capì subito che il motore MBA bicilindrico frontemarcia era troppo grosso, pesante anche se potente. Il Balen con cilindri a L era molto più compatto, leggero e stretto, tanto da poter garantire una distribuzione dei pesi ottimale. E poi, con i cilindri MBA, aveva una gran coppia. In termini di potenza pura forse pagava qualcosa ai migliori MBA, ma aveva più coppia e garantiva una migliore efficienza del telaio. Fu così che con l’ottimo telaio di Kalì e il Balen vincemmo il mondiale dopo che Calogero stesso, vittima di un incidente in cui ribaltò il camion mentre si recava in pista, fu costretto a lavorare tutta la notte per riparare le marmitte del Balen. Con quel motore vincemmo qualcosa come 28 gare consecutive in un anno.
Sei stato uno dei primi veri professionisti del kart, vero?
Diciamo che sono stato uno dei primi ad essere completamente spesato da una Casa…
Degli altri piloti, chi ti ha maggiormente impressionato?
Incontrai Ayrton Senna, per la prima volta, in una gara di kart internazionale. Era un pilota velocissimo, determinato e volitivo: sapeva scegliere il mezzo migliore e lo sapeva sfruttare oltre il limite. Nel paddock era già un personaggio, si sapeva imporre…
E degli altri?
Ti sorprenderà questo nome, ma uno dei piloti in cui ho visto un talento straordinario è stato Mike Thackwell. In termini di velocità, gestione della gara e controllo della macchina, a mio parere, era eccezionale. Però era come se non gli interessasse molto quello che faceva e, purtroppo, aveva veramente un brutto carattere. Talvolta ho anche pensato che non gli piacesse veramente correre in auto. Poi, un giorno, ne ebbe abbastanza e abbandonò le corse…
In kart, invece, ci fu una certa rivalità con Alessandro Piccini. Se non ci fossi stato io avrebbe vinto molto di più.
Che cosa ricordi dell’ambiente della “tua” F1?
A quei tempi non era così frenetica e stressante come oggi. Noi piloti italiani andavamo anche in vacanza insieme e ci divertivamo da matti. Una volta, alle Bahamas, ci iscrivemmo alla mezza maratona che vinsi, trascinandomi letteralmente negli ultimi metri. Fu divertentissimo. Non credo che oggi si divertano così in F1!
Quindi non ti piace molto la F1 attuale…
In genere non mi piace la piega che ha preso lo sport e, soprattutto, il motorsport. Guarda il karting, ad esempio. Io ne sono fuori da tanto, ma ho avuto un contatto con questo sport quando ha iniziato a correre mio nipote. Uno stress pazzesco, sembra di essere in F1! Hanno esagerato…
Lo sport deve rimanere, a mio avviso, un hobby, un modo per passare il tempo e divertirsi. Il karting di oggi stressa troppo i ragazzi ed è normale che a 16 anni qualcuno smetta nauseato dopo 2 anni di gare.
Bisognerebbe prendere le cose in modo meno professionale.
Questa grossa crisi economica spero che rimetta le cose in ordine, in modo da riportare tutto entro dei limiti ragionevoli.
Non è bello vedere bambini di 10 anni già piloti ufficiali, spesso vittime di padri frustrati che sfogano sui figli la loro passione. I miei inizi furono veramente da hobbista: correvo con mio fratello e, almeno nelle prime gare, arrivavo sempre dietro.
Cosa avresti fatto se non fossi diventato un pilota professionista?
Avrei fatto l’avvocato.
Qual è il tuo futuro?
A fine stagione, nel 2009, mi sarei potuto ritirare da campione del mondo in carica. Non l’ho fatto perché mi piace correre, mi diverto come quando ho iniziato e mi stimola molto confrontarmi con i giovani piloti. Continuerò a correre fin quando sarò competitivo e mi divertirò a farlo.
Il palmares di Gabriele Tarquini
Data di nascita: 2 marzo 1962 - Luogo: Giulianova, Teramo
2009: Campione del Mondo Turismo FIA WTCC (3 vittorie, Curitiba, Oporto e Imola)
2008: Vice campione del Mondo Turismo FIA WTCC (3 vittorie, Curitiba, Brno e Monza)
2007: 8° classificato al Campionato del Mondo Turismo FIA WTCC (1 vittoria a Zandvoort)
2006: 5° classificato al Campionato del Mondo Turismo FIA WTCC (1 vittoria a Istanbul)
2005: 7° classificato al Campionato del Mondo Turismo FIA WTCC
2004: 3° classificato al Campionato Europeo Turismo ETCC
2003: 1° classificato al Campionato Europeo Turismo ETCC (6 vittorie)
2002: Campionato Europeo Turismo ETCC
2001: 3° classificato al Campionato Europeo Super Turismo
2000: 6° classificato al Campionato Britannico Turismo
1999: 4° classificato al Campionato Tedesco Superturismo
1998: 7° classificato al Campionato Tedesco Superturismo
1997: 6° classificato al Campionato Britannico Turismo
1996: Campionato Intercontinentale Turismo
1995: 7° classificato al Campionato Italiano Superturismo
1994: 1° classificato al Campionato Britannico Turismo (8 vittorie)
1993: 3° classificato al Campionato Italiano Turismo
1987-92:Campionato del Mondo di Formula 1
1985: 5° classificato al Campionato Europeo F.3
1984: Campione del Mondo Karting classe 125 Formula C e Campione Italiano
1983: Campione d’Italia e d’Europa classe 125 Formula C