Abbiamo incontrato Max Papis, pilota ed ex kartista (come tutti quelli della sua generazione) consacratosi negli USA, che dall’altra parte dell’Oceano sta diventando un punto di riferimento per i giovani piloti Americani
Testo: F.Marangon
Raccontaci, come nasce la tua esperienza Americana?
“Beh ormai possiamo dire che non è più solo un’esperienza, una parentesi. Qui mi sono sposato, ho messo su famiglia, vivo e lavoro. L’America è la mia seconda casa. Detto questo, la Formula 1 non è stata per me quello che mi aspettavo, avendola sognata per tutta la mia carriera. Spiego meglio: ogni ragazzo in Europa insegue quel sogno fin da piccolo e dopo un bel percorso agonistico, dal karting alle varie Formule (Formula 3 e Formula 3000 n.d.r.) lo avevo coronato. La realtà di quel mondo era però molto diversa da come uno la immagina: è sempre difficile digerire il fatto che nonostante il talento spesso si debba contribuire in modo cospicuo alle spese del Team, diciamo così. All’epoca era comune, ma forse anche oggi funziona un po’ così, trovarsi appiedati perché altri piloti garantivano sponsor più generosi. Fu difficile per me da digerire e quando si chiuse quella porta, dentro di me decisi che con le corse avevo chiuso.”
“Beh ormai possiamo dire che non è più solo un’esperienza, una parentesi. Qui mi sono sposato, ho messo su famiglia, vivo e lavoro. L’America è la mia seconda casa. Detto questo, la Formula 1 non è stata per me quello che mi aspettavo, avendola sognata per tutta la mia carriera. Spiego meglio: ogni ragazzo in Europa insegue quel sogno fin da piccolo e dopo un bel percorso agonistico, dal karting alle varie Formule (Formula 3 e Formula 3000 n.d.r.) lo avevo coronato. La realtà di quel mondo era però molto diversa da come uno la immagina: è sempre difficile digerire il fatto che nonostante il talento spesso si debba contribuire in modo cospicuo alle spese del Team, diciamo così. All’epoca era comune, ma forse anche oggi funziona un po’ così, trovarsi appiedati perché altri piloti garantivano sponsor più generosi. Fu difficile per me da digerire e quando si chiuse quella porta, dentro di me decisi che con le corse avevo chiuso.”
Addirittura?
"Fare il pilota era la mia vita, ma se doveva essere a quelle condizioni, dove il budget era sempre più rilevante del talento (parliamo della metà anni ’90) allora era meglio lasciar perdere: ero molto scoraggiato. Poi ricevetti una chiamata. Piero Ferrari mi faceva sapere che Ferrari stava prendendo parte al Campionato IMSA e che cercavano un pilota. Chiesi quanto mi sarebbe costato, condizionato dalle esperienze passate. Quando lui mi rispose ‘porta il casco e la tuta’ capii che quella poteva essere una svolta nella mia carriera.
I risultati a quel punto non tardarono ad arrivare.. Infatti. Vinsi a Watkins Glen, Atlanta e Lime Rock già il primo anno ed ebbe inizio per me una nuova vita, sempre da pilota come avevo sognato da bambino, ma in un mondo per me più facile da capire: corro, sono un professionista, vengo pagato anziché pagare. E’ così che dovrebbe funzionare no?"

In quali altre categoria hai corso qui?
"Ho debuttato in IMSA e dal 1996 ho corso in Indycar per diversi anni con Toyota nel Team di Rahal, ho corso in Grand AM. Sono poi approdato al Campionato Nascar divenendo il pilota Europeo con più partecipazioni a questo tipo di gare, ho provato cosa vuol dire essere un pilota versatile!"
La domanda sorge spontanea: che differenze hai notato tra questo modo di vivere le corse e quello Europeo?
"Qui c’è molta attenzione all’aspetto globale del business. Mi spiego: c’è sentimento, c’è passione, ma i conti devono quadrare per tutte le realtà coinvolte. C’è tanto lavoro per tutti, e spesso anche i piloti sono visti come parte del meccanismo economico: gli americani sono davvero dediti al lavoro, prendono tutto molto seriamente. Ci sono i premi in denaro e forse trovare sponsor è meno complicato. Poi c’è da dire che le corse di auto qui non sono monotematiche, ci sono tante categorie, tutte molto seguite dal pubblico. Da noi l’attenzione è concentrata molto sulla Formula 1.
Veniamo quindi al nostro piccolo universo, il karting. In Europa i ragazzini crescono con l’obiettivo primario della Formula 1 e spesso l’intero percorso agonistico nel karting o formule minori è incentrato sul conseguire quel traguardo. Spesso si spingono piloti molto giovani al salto di categoria verso l’automobilismo, quando invece si potrebbe dare ancora molto nel karting, o puntare su altre categorie professionistiche".
"Qui c’è molta attenzione all’aspetto globale del business. Mi spiego: c’è sentimento, c’è passione, ma i conti devono quadrare per tutte le realtà coinvolte. C’è tanto lavoro per tutti, e spesso anche i piloti sono visti come parte del meccanismo economico: gli americani sono davvero dediti al lavoro, prendono tutto molto seriamente. Ci sono i premi in denaro e forse trovare sponsor è meno complicato. Poi c’è da dire che le corse di auto qui non sono monotematiche, ci sono tante categorie, tutte molto seguite dal pubblico. Da noi l’attenzione è concentrata molto sulla Formula 1.
Veniamo quindi al nostro piccolo universo, il karting. In Europa i ragazzini crescono con l’obiettivo primario della Formula 1 e spesso l’intero percorso agonistico nel karting o formule minori è incentrato sul conseguire quel traguardo. Spesso si spingono piloti molto giovani al salto di categoria verso l’automobilismo, quando invece si potrebbe dare ancora molto nel karting, o puntare su altre categorie professionistiche".
