Sebastien Buemi: la prova che non c'è solo la Formula 1

- Intervista
Dopo l'addio alla Formula 1, la carriera del pilota svizzero ha fatto quel salto mentale che permette di non essere accecati della sola massima Formula, guardando all’intero panorama mondiale dello sport motoristico. La quarta vittoria Le Mans di domenica sembra dargli ragione...

Sebastien Buemi è un caso emblematico del Motorsport di vertice degli ultimi anni: un esordio precoce in Formula 1 grazie ad un noto marchio della filiera, che altrettanto velocemente lo ha prima messo in panchina poi liquidato, associandolo, perlomeno per il pubblico della Formula 1, all'immagine di pilota “non adatto a guidare una Red Bull”, lasciando spazio ad altri giovani del programma (viene da chiedersi quali, ma questa è un'altra storia). Il pilota di origini Siciliane si è fin da subito saputo creare una scappatoia iniziando a gareggiare nel Mondiale Endurance già quando era ancora terza guida Toro Rosso e l'unica sua speranza di guidare una Formula 1 era al simulatore. Poi è arrivata la Formula E dove è riuscito a vincere un mondiale (e non è così scontato che un ex-formula 1 possa subito andar forte con le monoposto elettriche) per poi consacrarsi nelle gare di durata dove anche grazie all'evoluzione di Toyota è diventato un punto fermo del Team Giapponese. Facciamo un piccolo passo indietro tornando agli esordi sui kart:

«Avevo 5 anni, e mi hanno messo su un kart. Mi è sembrato subito tutto familiare, e mio padre se ne è accorto. A quel punto è iniziato un lungo percorso, passando per l’Italia ed i campionati continentali. E’ buffo vedere che dal kart in poi, fino alla Formula Uno, i nomi degli avversari che hanno accompagnato la mia carriera sono stati più o meno sempre gli stessi. In kart ricordo che con Niko Hulkenberg erano sempre fuoco e fiamme, e ci siamo ritrovati quasi dappertutto. Ho un bel ricordo del mio periodo da kartista, soprattutto ripensando ai miei successi nel campionato Italiano e in quello Europeo (Campione Europeo 100 ICA Junior su CRG nel 2002, n.d.r.) »

Quanto ha contribuito il karting alla tua formazione di pilota?
«Ho appreso le fondamenta di questo sport. Il kart può sembrare diverso dal mondo delle monoposto, ma alla fine credo che condivida tanti aspetti. Impari a vivere da professionista, a lottare e a gestire una corsa, a lavorare sul telaio provando a migliorarlo, a finire tutte le gare pensando nell’ottica del campionato. Sono situazioni e problematiche che accompagnano un pilota in tutta la sua carriera, ovunque si ritroverà a correre».

Quando sei passato alle monoposto eri giovanissimo, neo-sedicenne. E’ stato un impatto difficile?
«Ho trovato tante cose simili al kart, ma la macchina era diversa. La monoposto è più pesante, e ricordo che all’inizio quando giravo il volante sembrava che non accadesse nulla. Ero abituato alla reazione immediata del kart, e invece la monoposto era più lenta nelle reazioni. Bisogna adattarsi velocemente, ci sono piloti che sono stati fortissimi nel kart e che non si sono mai adeguati alla guida in macchina. Poi c’erano anche piloti che nel kart giravano tutti i giorni, e questo nelle monoposto non è possibile. Chi ha bisogno di tanto tempo per adattarsi è fregato».

Come è andata in Formula BMW?
«Ero già pilota Red Bull Junior Team. Avevo vinto il campionato, poi lo hanno ridato a Hulkenberg dopo un bel po’, cambiando l’esito di un provvedimento sportivo. Amen, ma ci ero rimasto un po’ male».

Poi sei passato in Formula 3
«Ho fatto anche qualche gara in Formula Renault 2.0, ma poi sono passato in Formula 3. Ho amato quella monoposto, perché era simile al kart e aveva tanta trazione. Non era fondamentale staccare un metro oltre, ma mantenere la velocità in curva. Nel campionato Europeo ho conquistato la seconda posizione dietro Romain Grosjean rimanendo in corsa per il titolo fino all’ultima gara».

In GP2 è rimasta la sensazione di un’esperienza incompiuta. E’ corretto?
«L’esordio è stato buono, ma nel 2008 forse non avevamo una monoposto da titolo. Comunque ho conquistato dieci piazzamenti sul podio e due vittorie. Alla fine il mio obiettivo era quello di convincere i vertici della Red Bull di meritare una chance in Formula Uno e ci sono riuscito»

Il tuo esordio in Formula Uno è arrivato sull’onda del debutto fantastico di un altro pilota del vivaio Red Bull: Sebastian Vettel. Come è andata nel tuo caso?
«L’inizio del 2009 è stato molto buono. Avevo Sebastien Bourdais come compagno di squadra, ed ero sempre più veloce. Sono arrivato settimo nella prima gara, e due GP dopo, in Cina, ero ancora in zona punti. Poi gara dopo gara è diventato più difficile, perché alla Toro Rosso non avevamo il doppio fondo, un elemento essenziale in quella stagione per poter ambire a buoni risultati. Siamo stati l’ultimo team ad averlo,ma quando è arrivato siamo tornati in zona punti. In Brasile mi sono qualifi cato sesto nella Q3 e ho concluso il GP in settima posizione»

Si guardava al 2010 come il campionato in cui ci sarebbe stata la tua consacrazione...
«Già, e invece è stata una stagione molto difficile. Nelle prime gare sono stato coinvolto in tanti incidenti senza avere colpe, e soprattutto era la prima stagione dove la Toro Rosso si è dovuta arrangiare sul fronte tecnico senza più contare sul supporto della Red Bull. Ci sono state anche circostanze sfortunate, come ad Abu Dhabi: ero sesto, un gran risultato per noi, e si è rotta l’idraulica».

E così ti sei ritrovato senza un volante.
«Già. Però la Red Bull ha voluto che rimanessi nella “famiglia” nel ruolo di tester. Ma oltre alle prove di Formula Uno volevo continuare a correre, ed è arrivata la possibilità di legarmi alla Toyota nel programma LMP1. Trattandosi di un grande costruttore non ho avuto dubbi, sono un pilota professionista e sono contento di poter vivere praticando lo sport che amo».

Che consigli ti senti di dare ad un ragazzo che sta muovendo i primi passi in questo sport?
«Deve capire quanto è disposto a dare di se stesso. Questo mondo è molto bello, ma c’è una concorrenza spietata e non ci si può permettere di non essere sempre al massimo. Concentrazione, rendimento, dedizione, preparazione fisica, tutto deve essere curato al massimo possibile. Se si vuole sperare di arrivare un giorno dove si sogna di essere, bisogna dare tutto. Non sono parole di circostanza, ma ciò che ho capito nel corso della mia esperienza».

Hai mai considerato di aiutare qualche giovane?
«Al momento non ho tempo, faccio talmente tante cose che materialmente non potrei. Ma un giorno… chissà, perché no? Adesso però devo lavorare per me, ma in futuro magari. Chissà, forse se avrò un figlio e lo seguirò, ma senza fare il papà invasivo. Ce ne sono già tanti».

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